martedì, 16 Aprile, 2024
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Cambiamenti climatici, ognuno faccia la sua parte

L’agricoltura e, in particolare, l’agricoltura di precisione sono le strade maestre da percorrere, ma è anche importante dare una comunicazione corretta e responsabile sul clima che cambia.

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Quando gli telefoniamo, la prima volta, il professor Luigi Mariani – storico dell’agricoltura ed esperto di agrometeorologia all’Università degli Studi di Milano – è impegnato a seminare il frumento nell’orto didattico in uno dei centri della Cooperativa Solaris, dove svolge attività di volontariato con i ragazzi disabili.

Professor Mariani, il 2022 è stato l’anno più siccitoso dal 1922. C’è da preoccuparsi?

“Io direi di no e lo vedo nel fatto che abbiamo una capacità di adattamento fantastica, tecnologie che non hanno paragoni rispetto al passato. Ma ciononostante, la gente ha un atteggiamento allarmato, irrazionale. Non credo, francamente, che ingenerare situazioni di panico con narrazioni estreme sia la strada giusta. A meno che dietro non vi sia qualche interesse non dichiarato. Non vorrei sembrare brutale, mi scusi, ma sono convinto che le persone debbano stare tranquille, non spinte all’ansia”.

Occorre una visione razionale?

Assolutamente. E visto che la sua domanda cita la grande siccità del 1922, che è stata giusto un secolo fa a dimostrazione che stiamo parlando di eventi non frequenti, dovremmo prendere esempio di quanto venne fatto all’epoca dall’ingegnere Angelo Omodeo, allora commissario all’Emergenza per la Siccità, il quale mise a punto una serie di piani per la gestione dell’acqua. Costruì dighe e opere idrauliche in tutta Italia, se nel Campidano ancora oggi si fa risicoltura lo dobbiamo proprio ad Omodeo, lavorò anche all’estero. E badi bene, non sto celebrando indirettamente le grandi opere che vennero realizzate sotto il regime fascista, nel quale non mi riconosco e che la mia famiglia avversò, ma sto dicendo che quelle opere ancora oggi ci sono utili, ma oggi servono nuove progettazioni, esattamente come cento anni fa. Serve una visione razionale, ripeto, non il panico. Non dimentichiamo che le produzioni agricole di oggi sono sei volte maggiori in quantità rispetto ad allora, ma richiedono più acqua. Dobbiamo attrezzarci”.

Cosa può fare l’agricoltura contro i cambiamenti climatici? Quali possono essere le soluzioni?

“Lo dico spesso ai miei studenti dell’Università di Brescia, dove insegno Agronomia e Tecnologie per la Sostenibilità in Agricoltura. Contro i cambiamenti climatici agricoltura e, in particolare, l’agricoltura di precisione sono le strade maestre da percorrere, tenendo sempre presente che il primo requisito deve essere la sostenibilità economica. Un’evoluzione tecnologica è necessaria per la conservazione delle risorse, purché l’investimento sia giustificato da un ritorno sostenibile in chiave economica. Se spendiamo di più di quello che è il potenziale ritorno, allora qualcosa non torna. Allo stesso tempo, l’agricoltura non deve essere diffamata”.

In che senso?

“C’è una responsabilità dell’agricoltura delle emissioni di ammoniaca, indubbiamente, ma è altrettanto innegabile che in Italia l’agricoltura incide solamente per il 17% delle emissioni di PM10, una soglia che in aree a forte vocazione zootecnica come la Lombardia arriva al 33%. Il restante 67% delle emissioni di PM10 da dove arriva? Non solo. Dobbiamo essere chiari anche su un’altra questione: gli ossidi di azoto non sono di origine agricola. Inutile dunque addossare responsabilità o colpe all’agricoltura. Parliamo di un settore che emette metano, CO2 e NO2, ma a fronte di emissioni in agricoltura a livello mondiale per 2,8 giga tonnellate di carbonio e un assorbimento addirittura di 11,5 giga tonnellate, siamo ampiamente in attivo. Eppure, assistiamo alla solita litania che la zootecnia inquina: dobbiamo invece spiegare che il metano lo abbiamo assorbito con le coltivazioni in campo. Basta dire che l’agricoltura inquina, quando la scienza dice altro.

Ritiene che la comunicazione della questione climatica sia corretta? O forse si spinge un po’ troppo al sensazionalismo?

“Con il collega Gianluca Alimonti consegneremo a breve un’analisi sulle catastrofi naturali dal 1900 a oggi, vista attraverso il data set del Cred dell’Università di Lovanio, in Belgio. In particolare, abbiamo constatato, sulla base dei dati, che gli eventi naturali estremi sono sostanzialmente piatti fino al 1950, poi salgono rapidamente fino al 2000 e poi cominciano a scendere. L’analisi ci dice, in buona sostanza, che l’aumento di eventi naturali estremi dal 1950 al 2000 si spiega col fatto che abbiamo una capacità di monitoraggio più ampia, grazie a droni, satelliti, sensori, strumenti di monitoraggio. Pensiamo agli uragani o ai cicloni tropicali: grazie ai satelliti oggi li vediamo, in precedenza no. E la popolazione mondiale era numericamente molto inferiore, con la conseguenza che alcuni fenomeni non venivano proprio osservati.

Quindi il tema non è il clima che si sta facendo più estremo. Anzi, come le dicevo, dal 2000 gli eventi estremi stanno calando. Lo abbiamo scritto all’Onu, documentando con i numeri, anche per chiedere che chi ha responsabilità nella divulgazione utilizzi la necessaria prudenza. Invece non ci sembra di avere, come si dice, buona stampa. Cito un altro elemento: si muore di più per patologie legate al freddo che non all’aumento delle temperature, per cui in linea teorica siamo di fronte a un aspetto positivo sul piano della vita umana. Ma nessuno lo dice”.

I cambiamenti climatici stanno cambiando anche le colture in campo.

, ovviamente. E questo rende oggettivamente difficile dire chi ha perso e chi ha guadagnato da tali mutamenti. La Polonia una volta non coltivava mais, per le temperature eccessivamente rigide. Oggi il mais che l’Italia ha perso lo stanno coltivando in Polonia. Se guardiamo l’aumento della CO2 possiamo a grandi linee affermare che laddove i Paesi, anche quelli in via di sviluppo, hanno un 30% di CO2 in più, hanno mediamente anche il 30-35% in più di produzioni agricole.

Ma mi lasci dire una cosa: nel mondo abbiamo circa 590 milioni di aziende agricole, 3 miliardi di esseri umani dediti all’agricoltura. Ma come facciamo a capire sistemi agricoli così complicati? Quello che non dovremmo fare è contrapporre sistemi o modelli agricoli fra loro, come la guerra fra biologico e convenzionale, dove a volte capita che vi sia una sorta di guerra di immagine degli uni contro gli altri. Fare business così, demonizzando l’altro, mi creda, è una piccinerìa indicibile. Invece ritengo che la strada da percorrere sia quella dell’innovazione tecnologica.

Una transizione ecologica radicale come quella proposta dalla Commissione Europea può convivere con le esigenze di aumentare le produzioni agricole?

“La transizione ecologica così come è stata pensata dalla Commissione Ue non va bene. Ma la spiegazione sta probabilmente nel fatto che per costruire una strada più verde andrebbero coinvolti i tecnici del settore agricolo e non seguire acriticamente indicazioni ambientali, perché la sostenibilità è figlia di un’agricoltura integrata, studiata in modo che tenga conto delle migliori innovazioni possibili.

Se l’Europa riduce la produzione agricola non ottempera al proprio dovere verso il mondo, che è produrre. E il motivo è molto semplice: se l’Unione Europea non produce, si crea una minore disponibilità di cibo e di materie prime, innescando così tensioni sui prezzi. E chi le pagherà tali tensioni, se non i Paesi in via di sviluppo? E poi c’è anche un aspetto ambientale che non viene considerato”.

Quale?

“Quando si produce meno si assorbe meno CO2, per cui a farne le spese è l’ambiente. Lo ha riconosciuto anche Ispra. Se l’obiettivo è ridurre l’impatto ambientale, bisogna produrre, perché una riduzione comporta effetti meno positivi in termini di mitigazione. Nel 1957 i Trattati di Roma prevedevano che le basi della Comunità Europea si basassero sulla sicurezza alimentare ed energetica, oggi abbiamo la Francia che pensa di produrre energia eolica e i tedeschi che puntano a chiudere le centrali nucleari. Speriamo che il dramma della crisi ucraina abbia risvegliato le coscienze, anche se ne dubito. Ma non possiamo abdicare al nostro ruolo e dimenticare gli obiettivi di sicurezza alimentare ed energetica”.

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